La vita di Amanda dietro le sbarre
Tutti ricordano Amanda Knox,la studentessa americana che insieme a Raffaele Sollecito e Rudy Guede, nel 2007 venne accusata dell’omicidio di Meredith Kercher, studentessa inglese.
I tre vengono poi condannati: Amanda Knox avrebbe dovuto scontare 26 anni di carcere, Sollecito 25 e Guede 16.
“Avrebbe dovuto” perché nel 2015 Sollecito e la Knox vengono assolti definitivamente, mentre a Rudy Guede che si avvalse del rito abbreviato, è rimasta la condanna in via definitiva per concorso in omicidio e violenza sessuale con sentenza della Corte di Cassazione. Ancora oggi sta scontando la sua pena.
Amanda dopo esser stata assolta, è tornata in America. Da lì ha scritto anche una autobiografia.
In questi giorni però, grazie ad un articolo di Broadly, torna a parlare dei suoi giorni nella prigione di Perugia.
Mentre era reclusa, ha incontrato e conosciuto una ragazza che lei stessa chiama “Leny” (nome di fantasia per proteggere la vera identità della detenuta).
Tra le due si instaura un rapporto inizialmente di amicizia. Le due parlavano tutti i giorni di qualsiasi cosa:
“Mi raccontò che dell’Italia conosceva le sentenze e la chiusura mentale. Mi fu subito simpatica. A 14 anni, nella mia scuola cattolica, si diceva che fossi lesbica e mi emarginarono. In seguito sostenni la comunità LGBTQ. Quando glielo dissi, fece un sorriso a trentadue denti. Mi stette dietro come un cagnolino, mi seguiva in cortile, dove facevo gli esercizi, e così fu ogni giorno”
Poi la 29enne americana parla delle varie dinamiche che via via andavano formandosi in prigione. Da una posizione distaccata, osservava i vari gruppetti di detenute che interagivano tra loro.
“A Capanne non appartenevo a nessun gruppo. Osservavo come i gruppi erano strutturati: gerarchici, come famiglie allargate, le nigeriane si chiamavano ‘mama’, le romane ’cugine’. Ognuna aveva una cotta. Si passavano letterine d’amore, si regalavano disegni con i fiori, c’erano dolorose separazioni, talvolta risse fra ex e nuove fidanzate. Alcune si comportavano da adolescenti, altre da sposate. La maggior parte di loro era eterosessuale, gay per circostanza. L’attività sessuale non era determinante in una relazione, importante, ma non fondamentale. A contare era il bisogno di contatto umano, quello che la prigione ti nega”
Molestie subite in carcere
Questa posizione di distacco però, non durò per sempre. Infatti, la sua stessa amica, provò in tutti i modi a trasformare quest’amicizia sbocciata in carcere in qualcosa di più.
“All’inizio Leny non tentò di sedurmi. Cercava solo qualcuno che la distraesse dalla solitudine. È normale. Contrariamente a quanto si pensa, i rapporti in carcere non riguardano il sesso. È come fuori. Leny cominciò a desiderare più di un’amicizia, voleva prendermi per mano, un giorno disse: ‘Ho già cambiato alcune donne. Posso farti cose che gli uomini non fanno’. Le dissi che non mi avrebbe cambiata e lei mi baciò. Sorrisi a metà, tra la rabbia e l’imbarazzo. Era già stato brutto consegnare il mio corpo, chiuso in gabbia, perquisito regolarmente, molestato dalle guardie”
Poi conclude l’articolo con la disamina dei rapporti gay in prigione e le molestie che si rischiano di subire anche dagli stessi agenti se questi escono allo scoperto.
“Le relazioni omosessuali sono frequenti in prigione ma l’intimità è formalmente vietata. Si rischia la punizione o il trasferimento. Dichiararsi omosessuali autorizza gli agenti a molestarti, a insultarti, a dirti quanto sei disgustosa. Ci intrigano i rapporti nella prigione, sono misteriosi e le trasgressioni ci rendono curiosi. L’idea del ‘Gay for the stay’, del diventare gay durante il soggiorno dietro le sbarre, è una semplificazione che mostra quanto non si comprenda la vita lì dentro ed è un modo per sottovalutare la natura umana”